D: Alcune ricerche sull’iperattività puntano il dito sugli effetti nefasti della televisione come ‘baby-sitter’ dei più piccoli…
R: Questo è un altro spunto interessante: i bambini che guardano due o più ore di televisione al giorno sono destinati ad avere seri problemi di concentrazione ed iperattività da adolescenti, fino al 40% in più della norma. Questi sono i risultati di uno studio scientifico svolto in Nuova Zelanda analizzando la salute e i comportamenti di più di mille bambini, pubblicato sulla rivista scientifica americana 'Pediatrics'. L’iperattività in questo caso è generata dall’eccessiva velocità dei “frame”, i fotogrammi che si alternano con i continui e rapidissimi cambiamenti di scena, e che stimolano eccessivamente i delicati cervelli in formazione. “Questi bambini sembrano diventare intolleranti nei confronti di qualsiasi attività a ritmo più lento, quale lo studiare, l'andare a scuola, il giocare con i compagni'', si legge nello studio. Ebbene, mi chiedo come queste realtà possano essere così sistematicamente e colpevolmente ignorate da alcuni.
E’ davvero folle e semplicistico – dinnanzi ad uno scenario così complesso – ricondurre tutti i tipi di iperattività sotto l’unica etichetta di “ADHD”, è scientificamente assurdo: chi oggi lo fa, non si rende conto che consegna il proprio nome al ridicolo, agli occhi della scienza futura.
D: Ma lo psicofarmaco ha comunque degli effetti, quindi non è inutile. Se Lei fosse medico lo prescriverebbe?
R: Io sono un giornalista scientifico e non un medico, ma conosco numerosi medici e psichiatri che non lo prescrivono e non lo prescriverebbero mai. Sono tutti intelligenti i medici che lo prescrivono e tutti ‘oscurantisti medioevali’ i loro colleghi che non lo prescrivono? Non penso. Lo psicofarmaco è relativamente utile perché – come dice Emilia Costa, professore emerito di Psichiatria all’Università di Roma “La Sapienza” – è “una camicia di forza chimica”, quindi soddisfa le esigenze di noi adulti, mette sotto controllo il comportamento del bambino e lo rende ‘socialmente più accettabile’. Le confesso una verità: se dovessi occuparmi – cito un caso estremo – di un bambino pericoloso per se stesso e per gli altri, forse prenderei in esame anche la somministrazione di uno psicofarmaco, per evitare il peggio.
Non riuscirei a sopravvivere al rimorso, sapendo che avrei ad esempio potuto evitare il suicidio di un ragazzino e non l’ho fatto, vittima di una posizione “ideologica”. Ma questo dimostra appunto che la nostra posizione ideologica non è. Questi aspetti sono ben presenti nel nostro lavoro, ci confrontiamo spesso anche con gli specialisti, come dimostra la collaborazione ed il confronto da lungo tempo in corso con Enrico Nonnis, preparatissimo neuropsichiatra infantile di Psichiatria Democratica. E comunque – vorrei aggiungere - parliamo in astratto, perché una cosa dev’essere chiara: quanti di questi casi estremi avrebbero potuto venir presi in carico prima di sfuggire di mano e rendere inevitabile l’uso di un farmaco contenitivo? Ma qui non si parla di utilizzare un farmaco per ‘limitare un danno irreversibile’, per pochi giorni, e passare poi ad altre terapie, per indagare il disagio profondo del minore: qui abbiamo adolescenti che sono in cura con psicofarmaci da 1, 2, 5 anni, perché i genitori dicono che “da quando prende lo psicofarmaco il sintomo è sparito”. Appunto, il sintomo, perché la verità è che questi prodotti non curano proprio nulla, sono solo dei sintomatici.
Ma a quale prezzo sul medio-lungo periodo?
D: Mentre per l’ISS non è così?
R: Per l’ISS, e per una parte della comunità scientifica, questi psicofarmaci “curano”, e questo è quanto si legge sui loro protocolli. Anche in questo caso mentono, perché gli stessi produttori quando sono messi alle strette ammettono che si tratta di farmaci che garantiscono un certo beneficio solo sul sintomo. In questo caso certi specialisti “sono più realisti del Re”, ovvero più organicisti delle stesse aziende farmaceutiche. Come ci ha ricordato in una bellissima intervista video il prof. Giorgio Antonucci, decano della psicoanalisi in Italia, il business ha sempre avuto bisogno dei suoi “paggetti”, pronti a stracciarsi le vesti ed a squittire rumorosamente dinnanzi a chiunque metta in discussione la loro autonomia nel prescrivere qualunque cosa, che faccia bene o meno. E’ così che va da che mondo é mondo, non dobbiamo certo stupirci.
D: Voi avete chiesto a gran voce la revisione dei protocolli che regolano le diagnosi e le prescrizioni di psicofarmaci ai minori in Italia.
Si è mosso qualcosa?
R: Non l’abbiamo chiesto noi, l’ha chiesto una parte significativa della comunità scientifica nazionale, alla quale noi diamo voce, e l’hanno chiesto anche molti autorevoli rappresentanti del Parlamento nella legislatura appena conclusa. Manca la volontà da parte dell’ISS e dell’AIFA, forse proprio per i motivi approfonditi in quest’intervista. Sennò non si spiegherebbe perché all’ultima nostra richiesta di chiarimenti – scientificamente documentata e non certo demagogica – non abbiano ancora risposto, e son passati più di cinque mesi! In qualunque paese civile per un simile ritardo nel rispondere alle istanze di un comitato d’interesse nazionale qualcuno avrebbe già perso il posto di lavoro, o perlomeno sarebbe stata aperta un’inchiesta, ma il nostro come sappiamo è un paese un po’ strano, per non dire altro. D’altra parte ogni ritardo burocratico si traduce in una vittoria per loro ed in un crescente margine di business per i produttori. Ho la sensazione che la loro strategia sia quella di arrivare alla fine del primo biennio di monitoraggio per poi dire “abbiamo così pochi bambini in terapia farmacologica, quindi i protocolli vanno bene e non si toccano”.
D: Questo è molto interessante, può spiegarcelo meglio?
R: Mi pare evidente. A mio avviso l’idea è di ‘blindare’ i protocolli legittimandoli dall’iniziale bass numero di bambini in terapia farmacologica. Fatto ciò, l’attenzione dell’opinione pubblica si sposterà su altro e loro potranno poi fare quello che vorranno, e quando si tornerà ad occuparsi del problema sarà a quel punto troppo tardi. Questo è ciò che è successo in molti altri paesi: ma qui da noi, faremo in modo che le cose vadano diversamente, perché se Roma è un vicolo cieco, il ‘territorio’ risponde invece diversamente.
D: Siete diventati anche Voi “federalisti”, sull’onda lunga delle recenti vittorie della Lega alle Vostre elezioni politiche, in Italia?
R: No, non direi, non in quel senso, dico solo che la sensibilizzazione degli enti locali dà i suoi frutti: in Piemonte ed in Trentino sono state approvate due leggi che limitano l’uso di questi contestati prodotti farmacologici sui bambini e soprattutto vietano gli screening psichiatrici nelle scuole, che – camuffati da ricerche scientifiche – sono sempre stati in tutte le nazioni del mondo il principale strumento di pre-marketing per le multinazionali del farmaco.
Un terzo dei capoluoghi di provincia italiani appoggiano e patrocinano “Giù le Mani dai Bambini”, La Puglia poi ha deciso di rivedere i protocolli che Roma si rifiuta di toccare, dando una grande prova di coraggio come istituzione davvero al servizio dei cittadini e delle loro istanze. Sarà un effetto domino, nel prossimo periodo, le istituzioni sanitarie nazionali saranno travolte dalla loro stessa inerzia. E non potranno neanche dire di non esser stati avvisati.
D: Tra i motivi di contestazione di questi protocolli c’è anche il “margine interpretativo” e la discrezionalità con la quale possono essere applicati nelle diverse regioni del vostro paese. Prevedete quindi un’assistenza sanitaria di tipo differente a seconda delle zone?
R: Certamente esiste la possibilità di “interpretare” entro certi limiti le norme che permettono di etichettare un bambino come patologico ed attivare le relative procedure terapeutiche farmacologiche, ed ha ragione qul grande psicoterapeuta italiano che è Federico Bianchi di Castelbianco quando dice “questa diagnosi non è nel bambino ma negli occhi di chi lo guarda”: un bimbo “lievemente problematico” in una certa ASL, sottoposto solo a ‘terapie della parola’, comportamentali, psicologiche, etc., può diventare invece “grave” in un altra ASL fino al punto di richiedere una terapia massiccia a base di psicofarmaci. Stesso bambino, stesso periodo, stesso disturbo, stessi protocolli. Questo vuol dire che queste regole sono sbagliate, in questi passaggi, e quindi vanno corrette e migliorate. Vero è che il medico deve mantenere un margine d’indipendenza, ma qui non stiamo parlando di caramelle o aspirine, ma di derivati dell’anfetamina somministrati a bambini di 6 anni, è un po’ diverso. Inoltre i protocolli partono dal presupposto che l’iperattività sia una malattia, e questo come abbiamo detto non è assolutamente certo: ovvio che se però partiamo da quel presupposto, tutto ciò che ne discende come strategie terapeutiche sarà gravemente ‘viziato’. Anche dell’omosessualità fino al 1990 si diceva che era una malattia, e che si poteva curare con psicofarmaci. Si può essere più o meno ben disposti verso l’omosessualità, ma certamente non è ingoiando una pastiglia che un soggetto smette di avere esperienze di quel tipo, così come non è facendo ingoiare uno psicofarmaco ad un minore che si risolveranno i suoi disagi.
Magari esistesse la pastiglia miracolosa in grado di risolvere tutti i problemi.
D: E’ stata recentemente messa in risalto, nelle cronache nazionali italiane, la situazione della scuola e gli invadenti tentativi di “medicalizzazione del disagio”: sono sempre più frequenti i casi di bambini irrequieti e distratti che vengono etichettati “iperattivi” ed indirizzati dalle famiglie - su segnalazione della scuola - ai servizi di neuropsichiatria infantile per cure a base anche di psicofarmaci. Confermate queste circostanze?
R: Anche se il fenomeno è agli inizi, è un fatto, tanto che c’è un’inchiesta della magistratura in corso proprio in questo periodo a Bologna, ma il fenomeno interessa anche altri capoluoghi. Ci sono associazioni favorevoli alla somministrazione di psicofarmaci: sono genitori che li cercano e li danno ai propri figli. Questa è una scelta giuridicamente legittima se sono prodotti autorizzati al commercio, ancorché discutibile sotto altri profili. Questi genitori, presi dal sacro fuoco della “propaganda”, si aggirano per le scuole o comunque coinvolgendo insegnanti nei loro “corsi di formazione”, durante i quali spiegano che “l’ADHD è una malattia e si cura con psicofarmaci”.
La scuola è sempre stata un’anticamera della prescrizione, in tutti i paesi dove i produttori hanno avviato programmi di marketing sul territorio, e ci sarebbe da approfondire l’eventuale “buona fede” di questi genitori, che negli USA ricevono lauti finanziamenti dalle multinazionali del farmaco. Spesso – ma non sempre – si tratta di famiglie che sono approdate allo psicofarmaco per disperazione, in assenza di soluzione alternative efficaci. Ma ci sono anche tanti altri genitori con bambini iperattivi che hanno trovato soluzioni differenti, perché di questi si parla poco? Recentemente abbiamo attivato un altro sito, insieme con i sindacati CISL e CGIL e con le tre più rappresentative associazioni genitoriali italiane, CGD, AGE ed Agesc, a riprova che la maggioranza dei genitori italiani è con noi:
www.scuolaprotetta.it, dove insegnanti e famiglie possono iscriversi gratuitamente ad un corso di formazione a distanza su queste tematiche, perché l’informazione completa e corretta è la chiave di tutto, ed è il migliore “antifurto” anti-abuso.
D: Esistono davvero soluzioni alternative efficaci?
R: Certamente si, come ho detto prima la scienza ha moltissimo da dire prima di dover somministrare uno psicofarmaco ad un bambino.
Ma gli “sponsor” della soluzione farmacologica hanno imbrogliato le carte per anni, sostenendo in totale mala fede l’equazione “psicofarmaco = scienza”, e tutto il resto quindi non vale nulla. Abbiamo smascherato questa bugia, traducendo in italiano centinaia di ricerche scientifiche sull’argomento, pubblicate sul nostro portale
www.giulemanidaibambini.org. Noi comunque ci occupiamo di fare informazione, non di indicare “soluzioni alternative”, prova ne sia che riceviamo migliaia di lettere da genitori che ci chiedono di indicargli uno specialista che non usi psicofarmaci ma mai l’abbiamo fatto, non vogliamo “consigliare amici”, non desideriamo cadere anche noi nella trappola del conflitto d’interesse come le nostre controparti: noi diamo informazioni sul problema, dati scientifici resi in linguaggio divulgativo, poi i genitori scelgano in totale libertà.
D: Tuttavia è opinione comune che lo psicofarmaco – ancorché rischioso – agisca quasi immediatamente, mentre altre soluzioni terapeutiche sono magari efficaci, ma solo nel lungo periodo.
R: Intanto bisogna valutare qual è il prezzo a medio-lungo termine di quest’effimero sollievo.
E poi la scienza nuovamente ci è d’aiuto per smascherare le bugie, i luoghi comuni, le teorie spacciate per verità assolute: non sono pochi gli studi che hanno provato che dopo alcuni anni di terapia i farmaci utilizzati per l'ADHD non sono più efficaci della terapia comportamentale. Il National Institute of Mental Health (NIMH) ad esempio ha osservato 600 minori con ADHD. Lo studio concluse che - prendendo a campione un solo anno - il trattamento farmacologico - o la combinazione di trattamento farmacologico e terapia comportamentale - agivano meglio che non la sola psicoterapia. La stessa analisi su tre anni di follow-up ha indicato però che i farmaci "non hanno un effetto benefico" se confrontati con la sola terapia comportamentale, ed addirittura che il loro impatto potrebbe essere negativo a causa degli effetti collaterali, e che comunque “non sono stati osservati benefici dalla combinazione di farmaco e trattamento comportamentale rispetto alla sola terapia psicologica”. Il co-autore dello studio, il Professor William Pelham dell'Università di Buffalo, ha dichiarato che "non ci sono particolari indicazioni positive per il lungo periodo circa l'assunzione dello psicofarmaco piuttosto che non assumere alcuno psicofarmaco", e che gli analisti avevano sopravvalutato l'impatto positivo dei farmaci nella prima fase dello studio.
Chissà come mai gli ‘sponsor’ dello psicofarmaco si “dimenticano” sempre di citare questi dati, ed anche le rare volte che li citano – e penso in questo caso all’Istituto Superiore di Sanità – non li traducono poi in fatti applicandoli nelle proprie linee guida.
D: A proposito di Istituto Superiore di Sanità, alcuni loro esperti negano con fermezza che vi sia un incremento nell’uso di psicofarmaci per l’infanzia. Come commenta?
R: Se si riferiscono all’Italia non so su quale base di serietà possano parlare, dal momento che queste molecole sono state autorizzate al commercio da pochi mesi, e bisognerà attendere quindi qualche anno per ottenere dati statistici affidabili. Se invece si riferiscono a tutte le altre nazioni del mondo semplicemente mentono oppure non sanno neppure di cosa parlano: nel mondo l'utilizzo degli psicofarmaci per l'Adhd è aumentato di ben il 274% in un solo decennio, come ci illustra con chiarezza l’ultima ricerca affidabile, coordinata da Peter Levine al Dipartimento di Pediatria del Kaiser Permanent Medical Center, in California, mentre la spesa globale per l’acquisto di questi prodotti è cresciuta di ben nove volte! In cima alla lista dei Paesi che utilizzano maggiormente questi medicinali ci sono certamente gli Stati Uniti, ma si registra una crescita media annuale del 16,8% in numerosi altri paesi, tra cui anche diversi paesi europei come Inghilterra, Germania, Belgio, Spagna e Irlanda.
In Inghilterra, che è la porta d’accesso dagli Stati Uniti all’Europa, sono raddoppiate negli ultimi anni le prescrizioni ai bambini di potenti psicofarmaci come Ziprexa e Risperdal, originariamente destinati al trattamento di schizofrenici e psicotici, e molte di queste ricette – che vengono rinnovate per anni e anni - sono a fronte di una diagnosi di iperattività. La diffusione di questi psicofarmaci fa presagire che l'iperattività diventerà probabilmente il problema di comportamento dell'infanzia maggiormente trattato con i farmaci nel mondo. Minimizzare l’incremento significativo nell’uso di questi psicofarmaci obbedisce ad una precisa strategia di comunicazione che prevede una sottostima del fenomeno per permettere la diffusione del farmaco senza creare allarmismi nella popolazione tali da pregiudicare le vendite, strategia della quale certi specialisti sono (incolpevoli?) complici. Inoltre – seppure in cuor mio lo spero - ho difficoltà a credere che nel nostro paese non accada ciò che invariabilmente è successo in tutti gli altri paesi del mondo: non esiste “un muro” intorno alla penisola, e la mia netta sensazione è che i funzionari dei nostri organismi sanitari di controllo non si rendano conto di cosa sta succedendo nelle altre nazioni, o comunque non stiano prendendo iniziative sufficientemente incisive da incidere significativamente in questo delicato processo.
Inoltre, il problema non riguarda certo solamente gli psicofarmaci per l’iperattività, ma dobbiamo sempre tener presente il ‘mercato del disagio’ in generale, e al tendenza all’iper-medicalizzazione di questa nostra società è sotto gli occhi di tutti, non so proprio come si possa negarlo… se si è in buona fede.
(segue)